Di cosa si occupa la psicologia cognitiva applicata alla programmazione, anche di Facebook.

ragazza nuda sotto icona di facebook
Nei primi anni in cui il prelievo di denaro presso i bancomat iniziò a essere largamente utilizzato dalla popolazione, le banche si trovarono a fronteggiare un problema i cui costi, economici e di tempo, erano enormi: moltissime persone, una volta prelevato il denaro, se ne andavano dimenticando di ritirare la carta.

Esposto il problema alle aziende che avevano realizzato il programma per i bancomat, queste si accorsero che l'errore consisteva nell'avere creato un'interfaccia che proponeva le azioni necessarie al prelievo secondo una sequenza logico-temporale. Il programma era quindi stato impostato nel seguente modo: 1) l'utente inserisce la carta 2) l'utente digita il pin 3) l'utente digita il numero corrispondente alla cifra che vuole prelevare 4) l'utente ritira i soldi 5) l'utente ritira la carta. 1 e 5, "l'utente inserisce la carta" e "l'utente ritira la carta", erano sembrati una composizione equilibrata, un cerchio che si chiude: apro la porta, completo l'azione chiudendola.
La psicologia cognitiva applicata propose di vedere invece la cosa dal punto di vista degli obiettivi principali dell'utente, piuttosto che dal punto di vista della funzionalità delle operazioni: cosa voleva l'utente quando andava al bancomat? Soprattutto ritirare denaro. La forte valenza di questo obiettivo rendeva tutti gli altri passaggi dei meri sotto-obiettivi, che rischiavano di essere trascurati, una volta raggiunto l'obiettivo principale. Fu necessario far sì che l'obiettivo principale diventasse anche l'azione finale alla quale far sottostare tutte le altre azioni: oggi, l'azione "Ritira la carta", nella maggior parte dei bancomat è richiesta prima che la macchina consegni il denaro, azione che conclude tutta l'operazione.
Ci si potrebbe chiedere perché sia stato necessario pagare milioni di dollari (circa 7) affinché eminenti scienziati come Byrne fornissero - dopo centinaia di grafici e di simulazioni - una soluzione che qualunque persona dotata di un po' di pratico buonsenso avrebbe potuto regalare.
Il primo motivo è che oramai il nostro mondo è fatto così. Il secondo motivo è conseguente al primo, ma svela implicazioni interessanti: ragionando per obiettivi sulla base non della loro stretta rilevanza relativa all'esecuzione, ma della loro valenza emotiva, si è scientificamente ratificato un modello di progettazione informatica che ora si occupa principalmente di individuare cos'è che vuole davvero l'utente quando usa un'interfaccia. Non è così facile individuare l'obiettivo di valenza emotiva per cui un utente usa Facebook, per esempio: conoscere persone? Chattare? Esibirsi? Guardare? Intrattenimento? Relax? Informazione? Quello che si sa di sicuro è che una volta che l'utente avrà raggiunto il suo obiettivo finale smetterà di interagire con l'interfaccia, quindi è necessario, se vogliamo tenerlo lì, trovare il modo di rimandargli continuamente l'obiettivo finale, oppure riproporgli continuamente un obiettivo nuovo.
Questo è anche il motivo per cui Facebook cambia spesso proposte, tendenze e modifica lievemente ma in continuazione l'interfaccia: lo studio sulle aspettative di milioni di utenti si può fare soltanto tramite test empirici.
Da questi studi, che partirono appunto dalla dimenticanza irritante della carta bancomat e dai soldi che le banche investirono per la soluzione del problema, risulta che qualunque post di Facebook ottiene un numero massimo di like e di condivisioni che non superano quasi mai il 10% delle sue stesse visualizzazioni, proprio perché "guardare" o "leggere" il contenuto del post è l'obiettivo principale della maggior parte degli utenti, mentre l'eventuale like è un'azione che avverrebbe successivamente al raggiungimento di tale obiettivo. Salvo ovvie ma minime eccezioni (simpatia, amicizia), il 10% delle interazioni ha luogo soltanto perché per questi utenti "apparire a propria volta" oppure "ricoprire un ruolo approvante o disapprovante" è un obiettivo di valenza superiore al "leggere" o al "guardare" il contenuto del post.
Poiché "l'interazione dell'utente col post" è invece l'obiettivo principale dei gestori di Facebook, ecco che tutto il sistema si muove per stimolare azione, piuttosto che ricerca di informazione. Che l'informazione passiva non sia l'obiettivo primario di Facebook lo si capisce dal fatto che le pagine di raccolta ashtag si resettano ogni 24 ore.
A tutte queste ricerche purtroppo si deve anche il selvaggio interferire di pubblicità e di richieste di azione che si scatenano ad ogni tentativo dell'utente di accedere a qualche contenuto, come per esempio un articolo o un video, e che gli impediscono di raggiungere il suo obiettivo se prima non fa quello che gli viene chiesto di fare.
Quanto si può esagerare nel tenere sulla corda il desiderio di un utente di raggiungere il suo obiettivo finale prima che ci rinunci, scoraggiato dai sotto-obiettivi che si disseminano sul suo percorso? Dipende dalla valenza emotiva dell'obbiettivo finale e dalla soddisfazione parziale che si riesce a inserire al raggiungimento progressivo dei sotto-obiettivi: impossibile raggiungere fisicamente la ragazza rappresentata nella foto di questo post, ma è possibile almeno agire mettendo un commento o un like, oppure è possibile cercare un'altra fotografia analoga e ricominciare da capo. Soprattutto si è scoperto che è possibile "addestrare" l'utente ad "amare" certe cose, semplicemente propinandogliele con regolarità.
La teoria di base può sembrare ovvia ma le sue implicanze e le sue applicazioni, se sviluppate in modo articolato e scientifico, sono incredibilmente ampie. Non è un caso che su tutto questo ci siano moltissimi soldi in ballo e complicatissimi studi in atto.
Loredana de Michelis

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