L'educazione siberiana di Nicolai Lilin


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Ho avuto il piacere di assistere ad un incontro pubblico con Nicolai Kolima Lilin, autore di “Educazione Siberiana”.

Nicolai è piccolo, con le sopracciglia cespugliose e un po’ di pelle tra i tatuaggi. Arriva alla conferenza annunciando che ha fatto tardi perché si è fermato a bere vino con i suoi amici, quelli di Solesino. Sfoggia un italiano perfetto e parla in modo lento, un po’ pedante.
Mentre si dilunga sui pregi del bianco del Polesine, la sala si riempie di gente e io mi guardo intorno cercando di capire chi sono i suoi ammiratori: donne grasse e occhialute sedute per terra in modo scomposto, grigi impiegati di banca dallo sguardo interrotto.
Nicolai ispira sentimenti strani: pare un uomo di pensiero ma ha un sacco di tatuaggi. Se è stato un assassino, come racconta, era di quelli che sparano in faccia alle persone e ne guardano il sangue colare mentre le ripongono nel bagagliaio dell’automobile.
Ho in mano il catalogo della mostra d’arte dove si svolge la conferenza e dove Nicolai espone le sue opere, effigi di madonne bizantine con le pistole, tradizione ortodossa siberiana, pare, di cui non sembra importare molto a nessuno.
Dei tatuaggi che gli fanno da cappotto dice subito che non svelerà il significato: la tradizione è tradizione e lui quella non la vende, la mostra soltanto. Nel silenzio ottuso e deluso che segue, spiega che la mafia non c'entra e che dire “mafia russa” non ha senso, la mafia è una cosa nostra di noi italiani: simpatica, per carità, ma la Russia è un’altra cultura, chiudiamola lì, armi pari e patta.
Tutti fingono di ragionare su questa sentenza. Stanno ancora cercando di capire se un tatuaggio fanta-siberiano sia più fico di uno fanta-maori.
Della guerra e della morte Nicolai non parla, ci mancherebbe altro. Lo intervistano sul nuovo libro e in un’ora finisce, senza dire nulla di particolare. Una cosa moderata e senza svolazzi, credo anche questa, di tradizione. Siamo noi latini i pagliacci col vizio delle esternazioni ad effetto. Infatti arriva la domanda, che solo un italiano senza idea di vero rispetto può fare: “Lei che ha visto il male da vicino, cosa ne pensa?”
Mi ero riposata sulla sedia fino a quel momento, ma adesso sento un disagio che sta per trasformarsi in nervosismo. Forse non voglio sentire cosa viene dopo, perché la domanda non è una domanda: è una provocazione stupida in una momento impossibile, è come chiedere in pubblico a un chirurgo plastico se sia meglio la bellezza esteriore o quella interiore.
Nicolai non risponde subito, sembra pensare seriamente, guardando il suo interlocutore: trenta secondi in cui ho il tempo d’immaginare il bambino criminale della Siberia, il giovane soldato della Cecenia, il beone di Solesino: tutti a tenersi la mano e pensare a come cavarsela, mentre ognuno di loro avrebbe già risposto con una parolaccia di tradizione siberiana, non ancora registrata sui dizionari online.
Nicolai pensa e vaglia le possibili risposte. Non è un ipocrita che è stato messo al muro, come qualche ipocrita del pubblico sta compiacendosi di pensare: Nicolai pensa perché sta cercando una soluzione dignitosa senza infrangere le regole. Le regole sono: se parli in pubblico e vuoi soldi, non critichi il pubblico ma lo servi; ma non per questo ti vendi.
Fammi vedere, Nicolai.
Nicolai solleva leggermente la testa e dice: “Guarda, io ho soltanto visto persone accompagnare i loro fratelli nella morte, accudendoli come avrebbero fatto le loro madri. Ragazzi di venti anni feriti tra le braccia di altri ragazzi, che piangevano per loro. Se devo dire, io il male, quello senza ragione e senza giustificazione, quello che si vede in “Amici” di Maria de Flippi, ecco: io l’ho visto lì.”
Chiude la bocca, ha finito la risposta. Tutti a fissare lui che ci osserva quieto in attesa di altre domande, che non arriveranno più.
Nicolai, complimenti: è giusto e buono ciò che hai detto. E lo dico con rispetto.
C’è ancora più rispetto e simpatia per il momento di solitudine, inutile e irritante, che hai saputo affrontare con grazia a compostezza.
Ora ci credo, che sei un duro.

Loredana de Michelis




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